Raccolta Sentenze

Raccolta sentenze

Sentenze e articoli

Scopri di più

Diritti della personalità: l'adottato ha diritto a conoscere le proprie origini

L’adottato ha diritto di conoscere le proprie origini, accedendo alle informazioni concernenti non solo l’identità dei genitori biologici, ma anche quella delle sorelle e dei fratelli biologici adulti.
Avv. Francesco Faiello
  • Leggi di più

    La sentenza num. 6963 del 20 Marzo 2018, emanata dalla Sez. I della Corte di Cassazione, ha deciso su un ricorso presentato da una persona adottata che, in seguito al raggiungimento della maggiore età, vantava il diritto a conoscere i propri congiunti biologici.

    Secondo l’istante doveva trovare applicazione la Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell'adolescenza del 1989, meglio conosciuta come Convenzione di New York, sostenendo che il diritto al legame familiare prevalesse sul diritto alla riservatezza dei fratelli biologici.

    La richiesta veniva respinta dal giudice di prime cure, nonché dalla Corte d'Appello di Torino, sulla base di due presupposti: in primis, il diritto ai legami familiari sussisterebbe per ciò che concerne origini e identità dei soli genitori biologici; in secundis, sul diritto alla relazione, nella fattispecie con le sorelle biologiche anch'esse adottate, risulterebbe prevalente quello alla riservatezza.

    Avverso pronuncia dell'Assise di secondo grado, allora, veniva proposto ricorso dinnanzi ai giudici di Piazza Cavour.

    Gli Ermellini, tenendo conto che la domanda rivolta al Tribunale aveva a oggetto il riconoscimento di diritti fondamentali e inviolabili della persona e che il diritto a conoscere le proprie origini costituisce un'espressione essenziale del diritto all'identità, s'è ritenuto opportuno, anche sulla scorta di autorevole giurisprudenza, diversamente bilanciare i diritti in gioco, affermando che:


    “l'adottato ha diritto di conoscere le proprie origini, accedendo alle informazioni concernenti non solo l’identità dei genitori biologici, ma anche quella delle sorelle e dei fratelli biologici adulti, previo loro interpello mediante procedimento giurisdizionale idoneo ad assicurare la massima riservatezza e il massimo rispetto della dignità, al fine di acquisirne il consenso all’accesso alle dette informazioni o di constatarne il diniego, da ritenersi impeditivo dell’esercizio del diritto”.


    Pertanto, gli Ermellini cassano il provvedimento impugnato e rinviano il ricorso all'Assise territoriale in diversa composizione.

    In conclusione, viene fatto salvo ogni diritto alla riservatezza dei soggetti interpellati ma, allo stesso tempo, viene indicata la strada più opportuna, affinché ogni soggetto adottato possa rintracciare e recuperare il proprio legame sanguigno.

    Diritto alla riservatezza e diritto alla ricostruzione del mosaico familiare non possono considerarsi un ossimoro, ma è giusto valutarli come un'endiadi: due diritti, in buona sostanza, visti l'uno come il complemento dell'altro.

Cassazione: nessuna sanzione aggiuntiva per chi non ricorda chi era alla guida

“Ai fini dell’applicazione del Codice della strada, occorre distinguere il comportamento di chi si disinteressa della richiesta di comunicare i dati del conducente dalla condotta di fornisce una dichiarazione di contenuto negativo, validamente giustificandosi".
Avv. Francesco Faiello
  • Leggi di più

    La sentenza num. 9555 del 18 Aprile 2018, emanata dalla Sez. II della Corte di Cassazione, ha deciso su un ricorso presentato dal comune di un capoluogo di regione avverso una pronuncia che aveva accolto le doglianze di una cittadina dichiarante di non essere in grado di indicare le generalità di chi era alla guida del veicolo al momento dell’infrazione.

    Con un unico motivo il ricorrente eccepiva in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c., la violazione o falsa applicazione degli artt. 126 bis, comma 2, e 180, comma 8 del Codice della Strada, sostenendo che giudice di prime e seconde cure avrebbero errato nel giustificare l’omissione, in quanto il proprietario del veicolo è obbligato a conoscere le generalità del conducente, non essendo sufficiente addurre che l’automobile è in uso a più persone.

    Il Collegio non ha ignorato come la questione sia stata oggetto di più pronunce, peraltro di orientamento oscillante nel corso degli ultimi dieci anni. A ogni buon conto, se resta in ogni caso sanzionabile la condotta di chi non ottemperi alla richiesta di comunicazione dei dati personali, laddove la risposta sia stata fornita in termini negativi, resta devoluta alla valutazione del giudice di merito la verifica circa l’idoneità delle giustificazioni addotte, atte a escludere la presunzione di responsabilità.

    Nel caso di specie il giudice a quo, esercitando tale potere ha ritenuto di dovere escludere la responsabilità della cittadina sulla base di due presupposti: in primis, il decorso del tempo tra la data della infrazione contestata e quella della richiesta di informazioni (più di tre mesi); in secundis, la riferita presenza nel nucleo familiare di ben quattro soggetti, tutti fruitori dell’automobile.

    Secondo gli Ermellini la censura di violazione di legge non può non ritenersi infondata e, dunque:


    ai fini dell’applicazione dell’art. 126 bis del codice della strada occorre distinguere il comportamento di chi si disinteressi della richiesta di comunicare i dati personali e della patente del conducente, non ottemperando, così, in alcun modo all’invito rivoltogli e la condotta di chi abbia fornito una dichiarazione di contenuto negativo, sulla base di giustificazioni, la idoneità delle quali a escludere la presunzione relativa di responsabilità a carico del dichiarante deve essere vagliata dal giudice comune, di volta in volta, anche alla luce delle singole fattispecie concrete”.


    La disattesa a una richiesta di opportune informazioni, insomma, non è censurabile; se validamente posta può essere concretamente valutata come una valida giustificazione.

Cassazione: nessuna sanzione aggiuntiva per chi non ricorda chi era alla guida

“Ai fini dell’applicazione del Codice della strada, occorre distinguere il comportamento di chi si disinteressa della richiesta di comunicare i dati del conducente dalla condotta di fornisce una dichiarazione di contenuto negativo, validamente giustificandosi".
Avv. Francesco Faiello
  • Leggi di più

    La sentenza num. 9555 del 18 Aprile 2018, emanata dalla Sez. II della Corte di Cassazione, ha deciso su un ricorso presentato dal comune di un capoluogo di regione avverso una pronuncia che aveva accolto le doglianze di una cittadina dichiarante di non essere in grado di indicare le generalità di chi era alla guida del veicolo al momento dell’infrazione.

    Con un unico motivo il ricorrente eccepiva in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c., la violazione o falsa applicazione degli artt. 126 bis, comma 2, e 180, comma 8 del Codice della Strada, sostenendo che giudice di prime e seconde cure avrebbero errato nel giustificare l’omissione, in quanto il proprietario del veicolo è obbligato a conoscere le generalità del conducente, non essendo sufficiente addurre che l’automobile è in uso a più persone.

    Il Collegio non ha ignorato come la questione sia stata oggetto di più pronunce, peraltro di orientamento oscillante nel corso degli ultimi dieci anni. Ad ogni buon conto, se resta in ogni caso sanzionabile la condotta di chi non ottemperi alla richiesta di comunicazione dei dati personali, laddove la risposta sia stata fornita in termini negativi, resta devoluta alla valutazione del giudice di merito la verifica circa l’idoneità delle giustificazioni addotte, atte ad escludere la presunzione di responsabilità.

    Nel caso di specie il giudice a quo, esercitando tale potere ha ritenuto di dovere escludere la responsabilità della cittadina sulla base di due presupposti: in primis, il decorso del tempo tra la data della infrazione contestata e quella della richiesta di informazioni (più di tre mesi); in secundis, la riferita presenza nel nucleo familiare di ben quattro soggetti, tutti fruitori dell’automobile.

    Secondo gli Ermellini la censura di violazione di legge non può non ritenersi infondata e, dunque:


    “ai fini dell’applicazione dell’art. 126 bis del codice della strada occorre distinguere il comportamento di chi si disinteressi della richiesta di comunicare i dati personali e della patente del conducente, non ottemperando, così, in alcun modo all’invito rivoltogli e la condotta di chi abbia fornito una dichiarazione di contenuto negativo, sulla base di giustificazioni, la idoneità delle quali ad escludere la presunzione relativa di responsabilità a carico del dichiarante deve essere vagliata dal giudice comune, di volta in volta, anche alla luce delle singole fattispecie concrete”.


    La disattesa ad una richiesta di opportune informazioni, insomma, non è censurabile; se validamente posta può essere concretamente valutata come una valida giustificazione.


La zanzariera non pregiudica il decoro del condominio

L’esigenza del decoro architettonico viene accertata dal giudice caso per caso. La zanzariera, dunque, posta dalla proprietaria di un appartamento, salvo vistosa alterazione alla facciata, non pregiudica gli altri condomini.
Avv. Francesco Faiello
  • Leggi di più

    È quanto statuito dal Tribunale di Milano, con la sentenza num. 3222 del 17 Marzo 2017, che ha respinto la richiesta di un condominio di intimare alla proprietaria di un appartamento di rimuovere dal balcone una zanzariera e relativi supporti di sostegno.

    Il condominio pretendeva una remissione in pristino, presumendo un danno arrecato alla facciata condominiale. A questa istanza faceva risposta la tesi della condomina che, nel mantenere la zanzariera, sosteneva di non ledere l’immagine del palazzo.

    Rinviene nella quaestio l’ultimo comma dell’art. 1120 c.c., in materia di decoro architettonico che, per una sua compromissione, a parere dei giudici lombardi, è indispensabile “l'apprezzabile alterazione delle linee e delle strutture fondamentali dell'edificio o anche di sue singole parti o elementi dotati di sostanziale autonomia e della consequenziale diminuzione del valore dell'intero edificio".

    Alcuna alterazione avente le richiamate caratteristiche emergeva dal caso in questione, quindi, trattandosi di suppellettile anzitutto rimovibile e, per altro, dai sostegni dello stesso colore di ringhiere e tendaggi degli altri appartamenti.

    Il Tribunale ha, inoltre, disposto che spetta al giudice accertare il grado della modifica apportata e l’eventuale conseguente danno provocato, dal momento che questi può adottare caso per caso parametri di maggior o minor rigore sulla base della considerazione delle caratteristiche dell’edificio.

    In definitiva, la zanzariera installata dalla donna non lede in alcun modo il decoro e il condominio è condannato, perciò, a pagare le spese processuali.

Attenzione ai ricorsi in Cassazione di troppe pagine: sono a rischio inammissibilità!

Il rispetto del canone di chiarezza e sinteticità espositiva negli atti processuali costituisce principio generale, la cui inosservanza nella proposizione del ricorso di cassazione rischia di pregiudicare l’analisi delle questioni sottoposte all’esame della Corte, violando le prescrizioni di cui ai numeri 3 e 4 dell’art. 366 c.p.c., poste a pena di inammissibilità.
Avv. Francesco Faiello
  • Leggi di più

    Nella fattispecie la Corte aveva dichiarato inammissibile un ricorso avverso una pronuncia di un’assise distrettuale contenente ben diciotto motivi prolissamente illustrati in una produzione di duecentocinquanta pagine.
Il sindacato di legittimità ha ritenuto opportuno non entrare nel merito delle numerose questioni, dichiarando con la sentenza 21297 del 20 Ottobre 2016 l’inammissibilità dell’atto di impugnazione.
L’alluvionale riproposizione di stralci di atti processuali e documenti, con cui il ricorrente ha avuto pretesa di riproporre il contenuto di primo e secondo grado è stata vagliata come una tecnica redazionale incompatibile coi principi che definiscono le modalità di introduzione del giudizio per Cassazione contenuti dai numeri 3 e 4 del disposto di cui all’articolo 366 c.p.c.
Il costume dell’inclinazione alla complessità dell’argomentazione nel contesto giudiziario trova le sue radici in una molteplicità di fattori, in gran parte legati all’utilizzo della concinnitas della temperie culturale romanistica e all’assetto degli ordinamenti di derivazione canonica o di civil law.
Fino a qualche anno fa la tendenza alla sintesi forense era deontologicamente scandita dall’utilizzo di una marca da bollo per ogni quattro facciate. Vigeva, difatti, una vera e propria tassa sulla parola che oggi risulta ampiamente abolita dalla forfetizzazione del contributo unificato e dalle disponibilità virtualmente indefinite dagli strumenti informatici.
Tuttavia è da precisare che, nonostante l’attuale libero modus cogitandi degli atti di causa, il concetto espresso dai giudici di Piazza Cavour sembra trovare, del resto, notevoli precedenti che vanno nella medesima direzione.

    È del 2012, infatti, la pronuncia num. 11199 sulla sinteticità degli atti di parte che, se disattesa, non porterebbe a concrete violazioni formali, ma si porrebbe in palese antitesi ai principi che reggono il giusto processo.
“Meno si parla, più si ha ragione”, dunque, sembrano scandire a chiare lettere gli Ermellini che intendono a tutti i costi garantire il diritto a un processo equo dell’art. 6 CEDU e il duplice fine costituzionale di assicurare un’effettiva tutela del diritto di difesa e di salvaguardare i baluardi del giusto processo rispettivamente espressi dagli artt. 24 e 111, comma II.

Straordinario del lavoratore: attenzione alla prescrizione 

In tema di lavoro subordinato e riconoscimento del lavoro straordinario, va accolta la pretesa creditoria del lavoratore che abbia citato in giudizio il datore di lavoro, quando il primo abbia dato la prova del lavoro prestato, ma solo nei limiti dei crediti non prescritti.
Avv. Francesco Faiello
  • Leggi di più

    È il principio confermato dalla Sezione lavoro del Tribunale di Napoli con la sentenza num. 276 del 17 Gennaio 2017 che ha accolto il ricorso di un dipendente ASL, appartenente ad area dirigenza medica veterinaria, che vantava il diritto a una integrazione sui compensi maturati per il lavoro straordinario prestato.
 Ritualmente instaurato il contraddittorio, l'azienda sanitaria aveva eccepito tempestivamente la prescrizione quinquennale e dedotto l'infondatezza della domanda sulla scorta di un calcolo delle maggiorazioni dovute formulato con retribuzioni inferiori a quelle prevista dal CCNL. 

    Il giudice del capoluogo campano ha, invece, condiviso le modalità di computo del ricorrente delle ore di lavoro straordinario prestate dal 2006 al 2010 che aveva invocato i comma V e VI dell'Art. 28 del CCNL per il personale di dirigenza medica in materia di determinazione del trattamento economico dello straordinario e il comma I dell'art. 23 del CCNL per l'area di dirigenza medico-veterinaria in base al quale le misure degli stipendi hanno effetto, oltre che sulle mensilità, anche sul lavoro straordinario.
Sulla prescrizione dei crediti di lavoro è d'uopo segnalare due ipotesi.

    In primis, va rilevato il caso di un lavoratore che non goda di tutela reale, inserito, ad esempio, in una ditta con un numero di dipendenti inferiore a quindici: i termini di prescrizione per far valere il diritto alla retribuzione decorrono solo quando il rapporto è cessato. Per un dipendente che goda della tutela reale, perché addetto in un'azienda con un numero di subordinati maggiore a quindici, invece, i termini per la prescrizione in questione decorrono durante il rapporto di lavoro e iniziano mese per mese. 

    Questa differenza si spiega perché, in questo ultimo caso, se un lavoratore viene licenziato illegittimamente può rivolgersi al giudice e chiedere di essere reintegrato; il dipendente di un'azienda piccola potrebbe, all’opposto, comportarsi diversamente "per timore del recesso, cioè del licenziamento che spinge o può spingere il lavoratore sulla via della rinuncia a una parte dei propri diritti...” (Corte cost. n. 63 del 1966). 

    L'analisi del giudicante a ogni modo è molto semplice: i riferimenti normativi forniti dal ricorrente sono, sì, da considerarsi validi, ma solo per la ricognizione della misura oraria del compenso, dal momento che nulla precisano sulla applicabilità per il periodo anteriore all'entrata in vigore del contratto collettivo.

     I criteri legislativi sono, dunque, corretti, ma per i crediti vantati, su tutti quelli anteriori al 2009, incombe la prescrizione quinquennale di cui all'Art. 2948 c.c., poiché il ricorrente ha messo in mora l'azienda allo scadere del termine.

Cassazione: il conseguimento della pensione di anzianità non impedisce la reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato

La condanna del datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato è possibile anche quando quest’ultimo - pur se nelle more del giudizio - abbia conseguito i requisiti per il godimento del trattamento pensionistico.
Avv. Francesco Faiello
  • Leggi di più

    La sentenza num. 9555 del 18 Aprile 2018, emanata dalla Sez. II della Corte di Cassazione, ha deciso su un ricorso presentato dal comune di un capoluogo di regione avverso una pronuncia che aveva accolto le doglianze di una cittadina dichiarante di non essere in grado di indicare le generalità di chi era alla guida del veicolo al momento dell’infrazione.

    Con un unico motivo il ricorrente eccepiva in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c., la violazione o falsa applicazione degli artt. 126 bis, comma 2, e 180, comma 8 del Codice della Strada, sostenendo che giudice di prime e seconde cure avrebbero errato nel giustificare l’omissione, in quanto il proprietario del veicolo è obbligato a conoscere le generalità del conducente, non essendo sufficiente addurre che l’automobile è in uso a più persone.

    Il Collegio non ha ignorato come la questione sia stata oggetto di più pronunce, peraltro di orientamento oscillante nel corso degli ultimi dieci anni. Ad ogni buon conto, se resta in ogni caso sanzionabile la condotta di chi non ottemperi alla richiesta di comunicazione dei dati personali, laddove la risposta sia stata fornita in termini negativi, resta devoluta alla valutazione del giudice di merito la verifica circa l’idoneità delle giustificazioni addotte, atte ad escludere la presunzione di responsabilità.

    Nel caso di specie il giudice a quo, esercitando tale potere ha ritenuto di dovere escludere la responsabilità della cittadina sulla base di due presupposti: in primis, il decorso del tempo tra la data della infrazione contestata e quella della richiesta di informazioni (più di tre mesi); in secundis, la riferita presenza nel nucleo familiare di ben quattro soggetti, tutti fruitori dell’automobile.

    Secondo gli Ermellini la censura di violazione di legge non può non ritenersi infondata e, dunque:


    “ai fini dell’applicazione dell’art. 126 bis del codice della strada occorre distinguere il comportamento di chi si disinteressi della richiesta di comunicare i dati personali e della patente del conducente, non ottemperando, così, in alcun modo all’invito rivoltogli e la condotta di chi abbia fornito una dichiarazione di contenuto negativo, sulla base di giustificazioni, la idoneità delle quali ad escludere la presunzione relativa di responsabilità a carico del dichiarante deve essere vagliata dal giudice comune, di volta in volta, anche alla luce delle singole fattispecie concrete”.


    La disattesa ad una richiesta di opportune informazioni, insomma, non è censurabile; se validamente posta può essere concretamente valutata come una valida giustificazione.


Il merito della contestazione disciplinare non è sindacabile in Cassazione

“Il giudizio di proporzionalità tra fatto addebitato al lavoratore e licenziamento disciplinare non va effettuato in astratto, bensì con specifico riferimento a tutte le circostanze del caso concreto. Pertanto, esso è incensurabile in sede di legittimità, se sorretto da adeguata e logica motivazione".
Avv. Francesco Faiello
  • Leggi di più

    La sentenza num. 21506 del 15 Settembre 2017, emanata dalla Sez. Lavoro della Corte di Cassazione, ha deciso su un ricorso presentato da un dipendente che, in presenza di colleghi e clienti, aveva ingiuriato il datore di lavoro con grave danno all’immagine aziendale.

    Questi, licenziato in seguito all’episodio, proponeva ricorso attraverso la deduzione di due motivi. In primis, veniva rilevato che la Corte di merito avesse operato una descrizione di natura meramente formale della condotta addebitata e, come tale, inidonea a chiarirne l’effettiva portata; in secundis, il ricorrente lamentava un atteggiamento provocatorio e discriminatorio nei suoi confronti, visto il considerevole ritardo con cui era stato disposto il pagamento di una retribuzione.

    Gli Ermellini, per contro, dichiarando inammissibili i due motivi e, ritenendo la sussistenza della giusta causa di licenziamento, nonché della proporzionalità tra fatto e sanzione espulsiva hanno sottolineato che “il giudizio di proporzionalità tra fatto addebitato al lavoratore e licenziamento disciplinare non va effettuato in astratto, bensì con specifico riferimento a tutte le circostanze del caso concreto, alla entità della mancanza, ai moventi, all’intensità dell’elemento intenzionale e al grado di quello colposo".

    Inoltre, la Corte ha affermato che il comportamento oggetto di sanzione non va considerato solo da un punto di vista oggettivo, ma va analizzato anche in chiave soggettiva e in relazione al contesto in cui esso è stato posto in essere, tenendo conto, in sostanza, della sua pregnante portata lesiva, considerando l’immagine aziendale e anche il modello diseducativo per i colleghi più giovani.

    Ne consegue che ogni accertamento richiede grado e crisma del sindacato di merito. La Corte di Cassazione, allora, condividendo le censure dell’Assise territoriale, ha respinto il ricorso del lavoratore e ne ha confermato il licenziamento.

Fissate un appuntamento in studio per una consulenza legale
Richiedi una consulenza
Share by: